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In bioetica la libertà di scelta non esiste: le prove, ecco come ci ingannano

Siamo davvero liberi di scegliere? Bioetica e autodeterminazione, sono davvero complementari o valgono sono quando decide lo Stato?

Un venerabile principio, teorizzato con chiarezza per la prima volta da John Stuart Mill, prevede che lo Stato non debba interferire con le scelte individuali delle persone, a meno che queste scelte non provochino danni ad altre persone.

Questo principio è spesso applicato, e giustamente, in bioetica, dove si afferma che è il paziente, e non l’autorità statale, ad avere l’ultima parola su ciò che lo riguarda più intimamente, e cioè la propria vita e la propria salute, la propria sofferenza e la propria morte.

Così, per esempio, nel caso dell’aborto è la donna a dover decidere se interrompere o proseguire la gravidanza, così come nel caso dell’eutanasia è il paziente stesso, e non terze persone, a dover decidere se continuare o non le cure, fino al punto da poter chiedere anche di essere aiutato a morire.

Quando il paziente non è capace di esprimersi, come nel caso di bambini molto piccoli o soggetti privi di coscienza, a decidere sono chiamati i loro rappresentanti legali (genitori, familiari ecc.). Un rapido sguardo alle principali sentenze che, nel mondo, hanno fatto la storia di questo principio, rivela una certa incoerenza.

Bioetica e autodeterminazione: solo in alcuni casi

Fin dal 1976, con il caso Quinlan negli Usa, per finire nel 2019 con il caso Lambert in Francia – passando nel Regno Unito attraverso le vicende Cruzan (1990), Bland (1993) Gard (2017) e Evans (2018), Terry Schiavo (2005) negli Usa, Welby (2007), Englaro (2009) e dj Fabo (2016) in Italia – in tutti i casi di pazienti incoscienti, adulti o pediatrici, oppure coscienti ma refrattari ad alcune cure perché per esempio testimoni di Geova, i tribunali hanno quasi sempre deciso che si è liberi di rifiutare le cure ma non di proseguirle.

Anche nei casi in cui a esprimersi sono stati i rappresentati legali del paziente, è stata accolta la loro richiesta di interrompere ogni trattamento medico (casi Englaro, Schiavo e Quinlan), mentre si è respinta quella di poter curare, anche a proprie spese, i pazienti loro affidati (caso Gard, caso Evans).

La domanda è: perché in questi casi il principio di autodeterminazione è rispettato solo quando è richiesta l’interruzione delle cure ma non la loro prosecuzione?

L’unica risposta è che a contare non è, come si vuole far credere, la libertà di scelta delle persone o dei loro tutori, ma l’idea statale che a certe condizioni la vita non vale la pena di essere vissuta.

Libertà di scelta? Si, per lo Stato

Lo Stato, insomma, ha fatto la propria scelta: tutelare la salute collettiva senza sprecare risorse per casi disperati. Di conseguenza, esso favorirà solo le scelte che coincideranno con la propria, respingendo tutte le altre.

Torna così il principio richiamato all’inizio: quando una scelta individuale provoca danni a terzi, lo Stato può intervenire per impedirla. E non c’è dubbio che, in alcuni casi, continuare a curarsi anche quando si è molto malati sottrae risorse meglio utilizzabili per pazienti con maggiori prospettive di guarigione, finendo per danneggiarli.

La conclusione – e lo dirò apposta in forma provocatoria – è che in bioetica la libertà di scelta non esiste. Si possono scegliere o rifiutare, infatti, solo i trattamenti medici che lo Stato ha già stabilito che si possano scegliere o rifiutare.

Ne consegue che anche quando lo Stato approva, con una legge o con una sentenza, una determinata richiesta, ciò non avviene per rispetto della libertà di chi la avanza, ma perché tale richiesta coincide, casualmente, con quella che già lo Stato ha fatto.

Questo può anche andar bene, per carità. Ma allora bisognerà essere onesti, e, soprattutto in bioetica, dove non ci si può limitare a “ripetere” luoghi comuni, non dovremmo più parlare semplicemente di diritto di autodeterminazione dei cittadini. Perché non si tratta solo di questo, e farlo credere significa, essenzialmente, ingannare le persone.