Fascino e mistero del Cristo velato – di Marco Grosso – Raimondo di Sangro, il famoso Principe San Severo, fu nella sua vita tante cose: inventore, alchimista, anatomista, esoterista, mecenate, letterato, accademico.
Può essere annoverato come un originale esponente del primo Illuminismo italiano ed europeo. Tuttavia la sua fama resta legata principalmente alla committenza di uno dei più grandi capolavori di tutti i tempi: la scultura del “Cristo Velato”.
Così nel 1753 il Principe affida al giovane scultore napoletano Giuseppe Sammartino la realizzazione di “una statua di marmo scolpita a grandezza naturale, rappresentante Nostro Signore Gesù Cristo morto, coperto da un sudario trasparente realizzato dallo stesso blocco della statua”.
L’opera sarebbe stata posta al centro del Mausoleo di Famiglia, la Cappella S. Severo nel centro storico di Napoli, dove è attualmente custodita ed esposta al pubblico.
La scultura venne portata a termine con eccezionale maestria ma fu la trasparenza del “velo di marmo” ad apparire a tutti strabiliante e inspiegabile, a tal punto da alimentare nel corso dei secoli una leggenda ancora oggi dura a morire.
Secondo la leggenda lo stesso Principe Raimondo di Sangro avrebbe insegnato allo scultore la calcificazione del tessuto in cristalli di marmo, una segreta tecnica di marmorizzazione alchemica del velo.
Oggi sappiamo che quel velo è solo il risultato di due fattori: il talento manuale e il genio visionario di Giuseppe Sammartino, talento e genio che portarono il grande Canova ad esclamare che avrebbe volentieri dato 10 anni della propria vita pur di essere stato l’autore di una simile meraviglia.
Il Cristo velato e l’idea di bellezza
Il “Cristo velato” non rientra tra le numerose opere d’arte semplicemente “belle” ma tra le pochissime capaci di riscrivere l’Idea di Bellezza, la possibilità e il senso del suo manifestarsi.
Nessuno sa spiegare e definire in cosa consista, in ultima sostanza, la Bellezza e l’esperienza che possiamo farne.
Ma il paradosso estetico e mistico rappresentato dal “Cristo velato” dice intorno a questo mistero qualcosa di essenziale: ci dice che la divina Bellezza si offre a noi mortali nel gioco della profonda e inafferrabile trasparenza del suo ri-velarsi.
Proprio come in quest’opera d’Arte dove la Bellezza si ri-vela nello spessore di un “velo di marmo” che fisicamente non c’è ma continua ad apparire e a prendere la Forma del corpo crocefisso e senza vita di Colui che aveva detto “Io sono la via, la verità, la vita”.
Dunque cos’è e dov’è situato questo velo che si vede ma non c’è, da dove viene e a quale Ora risale? L’effetto di contemporaneità e di ri-presentazione dell’evento supera ogni possibile rappresentazione logico-cronologica.
Dal punto di vista del contenuto storico-temporale rappresentato, il velo ci appare come fosse stato adagiato sul corpo pochi istanti prima. Il corpo racconta tutto lo strazio del martirio subìto ed è a sua volta deposto su un soffice materasso (finemente definito) ai piedi del quale stanno ancora gli attrezzi della tortura (una tenaglia, i chiodi deformati, la corona di spine).
L’istante eterno della Pietà universale
Dunque la tragedia si è appena consumata, i cieli si sono chiusi e la terra ancora trema; una Madre piange sul suo Figlio esanime e lo stringe a se stessa come volesse riportarlo nel suo grembo: è l’Istante eterno della Pietà universale.
Sul piano estetico-formale il velo ci appare d’altra sostanza rispetto alla materia modellata: in alcuni momenti può sembrarci una seconda diafana pelle, in altri sembra affiorare e trasudare dall’interno del marmo nel preciso istante in cui il nostro sguardo vi si posa; in altri momenti ancora si riceve la straniante impressione che il velo sia liquido e scorra sulla pietra lucida levigandola.
Il corpo, dunque, non ci appare semplicemente velato ma come fatto di e dal Velo, intessuto di velature che diventano venature, di pieghe che volgono in giunture ossee e muscolari: un corpo diventato calco e “fantasma” del suo stesso velo, inscindibile da esso, una Sindone marmorea che non ci restituisce più solo il negativo fotografico del Corpo senza vita ma la sua forma plastica e vivente.
Nel “Cristo Velato” Sammartino è arrivato a scolpire non un velo soltanto ma l’essenza misteriosa e metafisica di ogni “re-velatio”, di ogni gioco di svelamento/velamento del Mistero.
Lo ha fatto mediante un sudario che (tra)sparendo racconta il Silenzio del Dio fattosi Carne fino alla Salma, oltre ogni Parola umana e divina.
Così, al di là gli effetti estetici e sinestetici, quel che si intravede davvero è un sudario incollato ad un corpo martoriato e ancora madido, un sudario che di quel corpo testimonia tutta la crocefissa, regale Bellezza.
Il senso escatologico del tempo
Tutto questo non ha a che fare solo con il gioco della visione ma, come abbiamo visto, con l’accadere della Verità come Bellezza e con il senso escatologico del tempo: nello sguardo dello spettatore gli ultimi tremori dell’agonia terrena del Cristo si confondono con i fremiti che precedono il risveglio della sua Resurrezione. Il tempo del Cristo Velato resta sospeso e congelato in un “Frattempo assoluto” tra il “Già” e il “Non Ancora” della Redenzione.
Sammartino ci ricorda, molto prima del grande fenomenologo della Percezione Marcel Merleau-Ponty, che la verità non sta mai dietro e oltre il suo velo (tolto il quale vedremmo la verità nuda e senza veli) ma che a noi si ri-vela (si s-vela velandosi ancora) sempre e solo nella inesauribile profondità del suo velo, dentro la trama e l’ordito dei suoi fili, nel gioco sempre nuovo delle sue volute e velature, trasparenze e opacità, riflessi e riverberi.
Davanti a questa pietra bianca che riprende vita negli occhi e dentro l’anima di chi l’ammira si resta dunque rapiti, scossi e commossi come di fronte al “monstrum” (l’apparire portentoso) degli antichi miti, all’”erhaben” kantiano (il sublime che stupisce e atterrisce) o al “thauma” artistotelico e platonico (la primordiale “traumatica” meraviglia da cui sorge ogni grande interrogativo sul senso delle cose e della vita).
Il genio napoletano è riuscito, per “arte di velare” più che per “arte di levare”, a scolpire l’In-visibile e a dare forma al Vuoto stesso che, secondo la Fede, avrebbe di lì a poco colmato e spalancato il Santo Sepolcro.