Sarà difficile levarsi dalla testa il suono alieno, demonico, animale della risata di questo Joker. Stridula, straziante, incontrollata afferra e contorce all’improvviso il corpo, la faccia, la voce del protagonista Arthur Fleck interpretato da un inarrivabile Joaquin Phoenix.
Accade nei momenti più inopportuni, ogni volta che Arthur subisce una qualsiasi violenza, derisione o umiliazione da parte di chi, per sadismo o per cieca superficialità, infierisce sul suo disagio psichico; accade ogni volta che il passato di quella brutale violenza fisica e psichica (subita da bambino e poi rimossa) torna a perseguitarlo nel disturbo di questa Risata involontaria che si prende gioco di lui, del suo intimo tormento e perfino della sua voglia di divertire gli altri attraverso il costume e il trucco del suo pagliaccio ridens.
Il “Joker” di Todd Phillips segna una tappa significativa nella storia del cinema di questi ultimi vent’anni: in primo luogo scavalla il limite del genere (il “cinecomic”, il film tratto dal fumetto supereroistico) a cui questo film apparterrebbe ma che il film decostruisce e ricostruisce nel paradosso di una tragicommedia sviluppata sincronicamente su tre livelli (intimistico-psicanalitico, socio-politico, fumettistico-estetizzante).
In secondo luogo sposta il limite della recitazione cinematografica grazie alla sovrumana capacità di Phoenix di “incarnare” (ben più che imitare, recitare, interpretare) e insieme di “reinventare” ogni minimo tratto, dettaglio, smorfia, movenza del suo inedito e singolarissimo Arthur/Joker (operazione complicata dal fatto che Joker sia un eroe fumettistico arcinoto, già tipizzato dal suo inventore e in passato già rappresentato magistralmente da attori del calibro di Jack Nicholson ed Heath Ledger).
Quel lato oscuro di “Joker” insito in ognuno di noi
In terzo luogo spinge al limite estremo il disorientamento dello spettatore che dopo aver sviluppato un legame fortemente empatico con la vittima umiliata viene colto dalla vergogna per quella sua orrenda mutazione ma nel momento stesso in cui ripudia dentro di sé il mostro che Arthur è diventato scopre che Joker non è altri che il nome del lato oscuro e inconfessabile di se stesso, di ognuno di noi.
Joker irrompe sul cinema contemporaneo come un film disturbante e smisuratamente provocatorio, la sua forza d’urto è tutta già manifesta e operante nel corpo, nello sguardo e nelle movenze di un Phoenix “mostruoso” sia per il personaggio interpretato che per la sua performance interpretativa eclettica, estrema (stavolta l’oscar non glielo toglie nessuno! ).
Ci si domanda davvero, dopo la visione di questo film, come Phoenix sia riuscito non solo ad entrare tanto visceralmente nel corpo del suo Arthur/Joker ma ancor più come sia riuscito ad uscirne (ammesso che sia ri-uscito).
Il pubblico
Due considerazioni anche sul pubblico di “Joker”: le sale cinematografiche sin dai primi giorni di proiezione sono gremite e il cult movie comincia già a diffondersi rapidamente insieme al divieto di presentarsi nei cinema con maschere e pistole giocattolo per timore di contagi emulativi e il rischio di atti terroristici.
Eppure l’impressione che ho ricavato in sala l’altra sera è che il grande pubblico, in buona parte di adolescenti, si aspettasse una sorta di sequel di Batman o un cinecomic adrenalinico in stile Marvel.
Invece si ritrova spiazzato e ipnotizzato dalla potenza di questo racconto iperrealista, simbolista e introspettivo, di questo terrifico e spettacolare inabissamento di un antieroe, un loser, un perdente nei dirupi della sua follia che trasforma la vittima sofferente e remissiva che era in una maschera omicida e danzante al di là di ogni senso-valore e di ogni senso di colpa.
La maschera irridente di Joker non camuffa né occulta la disperazione di Arthur ma la espone impietosamente e in tutta la sua gelida crudezza; quella maschera racconta più di tanti volti nudi perché mostra il volto stesso della tragicommedia nichilistica del nostro tempo capace di mischiare spettacolo, orrore, ingiustizia, divertissement, disperazione senza alcuna possibilità di redenzione.
La maschera di Joker non aderisce soltanto ai lineamenti del suo viso né semplicemente si moltiplica nel simbolo di un’anarchica ribellione collettiva ma si estende a tutto il suo corpo emaciato, alle sue deformità e sporgenze, alle sue torsioni innaturali, all’andatura impacciata e nevrotica che nel corso della sua trasmutazione in Joker acquista la levità e la leggiadria di una danza satirica e liberatoria sul ciglio dell’abisso, sulle note di “that’s life” di Frank Sinatra e sui passi di “stap that blass” di Fred Astaire che rendono, per contrasto, tutta la dissonante follia del Joker.
Un cult movie, un’icona di questi anni
La potenza espressiva del film (esaltata da un crescendo ritmico-narrativo travolgente, da una sceneggiatura senza sbavature, da scenografie metropolitane suggestive e immersive, da una fotografia magnetica impastata di toni giallo-rame e caldi-aranciati) si esprime tutta in questo sapiente intreccio tra la dimensione psicopatologico-esistenziale del protagonista e quella socio-politica del contesto che deflagra con lui (i suoi gesti criminali vengono interpretati dalle folle come appelli dimostrativi e simbolici ad una sovversione anarcoide e ultraviolenta contro le logiche escludenti del potere costituito).
Joker resterà come un cult movie e un’icona di questi anni. Il riferimento più riconoscibile è quello al cinema di Scorsese ( su tutti Taxi driver e Re per una notte) ma l’operazione per certi versi ricorda anche quella del recente Birdman (anche lì rivisitazione decostruttiva e tutta psicologica di Batman) ed è, a mio parere, anche più spietato e perturbante di Arancia Meccanica.
Ad ogni modo, al di là di qualche inevitabile parossismo e del citazionismo diffuso, si tratta di un autentico capolavoro che riporta il cinema americano al livello e all’impronta dei capolavori di Kubrick, Scorsese, Francis Ford Coppola.
Chiudo la mia recensione come l’ho aperta, con il senso di quella risata che da sintomo di un disturbo individuale diventa infine il segno profetico di una ribellione esplosiva e collettiva.
Nel capolavoro di Todd Phillips alla fine è proprio la risata di Joker a trionfare su tutto il sistema come in una sinistra rivalsa della sua malattia sul mondo, lo stesso mondo che aveva trasformato la sua malattia e la sua risata in una sentenza di condanna.
“Una risata vi seppellira’” sembra ripetere un Joker sanguinante contro i suoi nemici e rivolto alle folle che lo acclamano. Sono tutti suoi cloni clown che hanno trovato in lui la forza e la spinta a ribellarsi. Ride bene chi ride ultimo?