Sport e battaglie civili: un connubio che negli ultimi cinquant’anni ha portato a grandi rivoluzioni. Battaglie spesso guidate da campioni noti, ma capita anche che partecipino atleti quasi sconosciuti, come Peter Norman.
L’ultimo sportivo in ordine di tempo a essersi schierato a favore di una battaglia politica e sociale è l’allenatore del Manchester City Pep Guardiola, catalano di nascita e che alla Catalunya deve i suoi successi sportivi da giocatore e da allenatore.
L’allenatore è sceso virtualmente in piazza con i manifestanti qualche giorno fa, con un videomessaggio in cui si è unito alla protesta contro la sentenza della Corte Suprema spagnola nei confronti dei leader dell’indipendentismo catalano.
Certo, far sentire la tua voce è facile se sei l’allenatore più famoso e pagato del mondo o se sei un personaggio riconosciuto ovunque.
Tornando indietro negli anni, uno dei primi fu il grande pugile Muhammad Alì che, per aver disertato la chiamata alle armi per protesta contro la guerra del Vietnam, nel 1967 fu squalificato per 3 anni e detronizzato: niente più titolo di campione del mondo.
Era il periodo del movimento “black power” e delle battaglie contro la segregazione razziale. Gli atleti di colore erano carne da show da mostrare al mondo come trofei ma guai a far loro condividere ristoranti, autobus e scuole con i “bianchi”.
E proprio contro tutto questo combattevano Tommie Smith e John Carlos. Erano veloci come il lampo e con un sacco di voglia di combattere anche fuori dalla pista. Furono i fondatori, nel 1967, insieme ad altri, dell’Olympic Project for Human Rights.
Nel frattempo, nella primavera del 1968, il mondo intero era stato attraversato da un’onda inarrestabile di proteste: Berkley, Parigi, Praga. Milioni di giovani si riversarono in strada.
Peter Norman e la sua protesta silenziosa
Olimpiadi di Città del Messico. Ottobre ’68: nella finale dei 200 metri piani, Tommie e John arrivarono primo e terzo. Sul podio decisero di inscenare la loro protesta e stravolgere il rigido cerimoniale puntando un pugno inguantato verso il cielo e abbassando la testa durante l’inno.
Una protesta contro la segregazione: cosa potrà mai capirne un “bianco”, per di più australiano, magari anche un po’ borghese? Perché Peter Norman, il secondo sul podio, sembrava estremamente a disagio e fuori luogo. Era rigido, quasi infastidito, sguardo fisso nel vuoto.
Probabilmente aveva una gran fretta di andare via da lì con il suo argento, non voleva essere coinvolto in una cosa che in fondo non lo riguardava. La protesta era degli altri, di certo non sua.
E in effetti il pensiero generale fu che l’australiano fosse fuori posto, forse addirittura razzista, che non volesse condividere il podio con due atleti di colore.
C’era però qualcosa che non tornava: qualcuno nella delegazione australiana notò che la tuta aveva qualcosa di diverso. Una macchia bianca sul petto che non ci sarebbe dovuta essere.
Era una spilla che aveva un simbolo disegnato sopra: quello dell’Olympic Project for Human Rights. Gliela avevano prestata Tommie e John prima della premiazione su sua espressa richiesta. Voleva protestare anche lui.
Anzi fu proprio Peter a suggerire ai due velocisti americani di indossare un guanto a testa (John a quanto pare aveva perso il suo paio).
In giro per il mondo, non fu chiara la portata del gesto di Peter. Le conseguenze, invece, furono molto pesanti: i media australiani lo condannarono e i responsabili sportivi lo boicottarono.
Peter e la vita dopo la protesta
Peter Norman si qualificò per le Olimpiadi di Monaco di Baviera 1972 per correre i 100 e i 200 metri. Ma ne venne escluso: pur di non mandare lui, la federazione preferì non mandare nessuno.
Terminata l’attività agonistica, rimase impegnato nel campo dei diritti civili senza mai abbandonare il mondo dell’atletica. Fece l’insegnante per il resto della sua vita.
Nonostante fosse stato il velocista più forte della storia australiana, Peter Norman non venne coinvolto nell’organizzazione dei Giochi olimpici di Sydney del 2000 e neppure invitato a presenziare.
Da ormai trent’anni negli Usa la battaglia del black power aveva portato alla fine della segregazione. Nelson Mandela era stato scarcerato ed era diventato presidente del Sud Africa nel 1994. Ma questo non era ancora abbastanza per rivalutare Peter e la sua protesta.
Dopo la morte per un infarto, nel 2006 la federazione statunitense di atletica leggera proclamò il 9 ottobre il Peter Norman day. Il giorno del suo funerale a portare la bara c’erano anche Tommie e John, che erano rimasti legati a Peter per quel piccolo gesto di solidarietà silenziosa che all’atleta era costato tutto.
Le scuse… 50 anni dopo
Nel 2012 il Parlamento australiano, con una discreta tempestività, decise di scusarsi con Peter Norman tramite una dichiarazione, riconoscendo il suo coraggio nell’indossare la spilla e riabilitandolo definitivamente.
“Questo Parlamento: 1) riconosce lo straordinario risultato atletico di Peter Norman, che vinse la medaglia d’argento nella gara dei 200 metri piani ai giochi Olimpici di Città del Messico del 1968, in un tempo di 20.06, ancora oggi record australiano;
2) riconosce il coraggio di Peter Norman nell’indossare sul podio uno stemma del “Progetto Olimpico per i Diritti Umani”, in solidarietà con gli atleti afro-americani Tommie Smith e John Carlos, che effettuarono il saluto di “potere nero”;
3) si scusa con Peter Norman per non averlo mandato ai Giochi di Monaco 1972, nonostante si fosse qualificato ripetutamente; e
4) riconosce tardivamente il significativo ruolo che Peter Norman ebbe nel promuovere l’uguaglianza di razza.”
Peter Norman non aveva nulla per cui essere riabilitato. Il suo appoggio silenzioso fu un gesto coraggioso, perché forse sapeva quanto gli sarebbe costato. Ma la storia gli aveva già dato ampiamente ragione. In fondo i suoi detrattori sono arrivati solo con 50 anni di ritardo.