Caso Soleimani: uccisioni preventive, terrorismo e legittima difesa.
Da quando esistono le guerre non convenzionali, chiunque uccida non considera mai la propria azione come “terrorismo” o “omicidio”.
Se a uccidere è un governo, l’azione è legittimata come “tutela della sicurezza”, “protezione dei diritti umani”, “prevenzione” ecc.; se a farlo, invece, sono dei singoli o delle organizzazioni paramilitari, l’azione è legittimata come “resistenza”, “giusta ribellione”, “patriottismo” ecc.
Si pensi, per quanto riguarda i governi o gli organismi internazionali, alle guerre preventive americane in Medio Oriente, agli interventi umanitari della Nato o, per i gruppi paramilitari, ai militanti dell’IRA in Irlanda o dell’OLP in Palestina.
Ma anche al nostro Risorgimento, alla nostra Resistenza e agli anni di Piombo. In base al proprio schieramento ideologico, si tratterà alternativamente o di terroristi o di eroi nazionali.
Lo schema si ripresenta, in queste ore, a commento dell’inaspettata uccisione, rivendicata direttamente dal presidente Usa Trump, del generale iraniano Qasem Soleimani.
Sul fatto, sulle sue presunte o reali motivazioni (per esempio un escamotage di Trump per distrarre l’opinione pubblica dalla procedura di impeachment ecc.) e sulle sue possibili o improbabili conseguenze, molto si può dire e molto si sta dicendo, fino a profilare il rischio di una terza guerra mondiale.
C’è chi, non senza buone ragioni, parla di “assassinio politico” o di “terrorismo legalizzato”, dal momento che l’operazione è avvenuta all’interno di uno stato sovrano, l’Iraq, e nei confronti di un alto esponente politico-militare di un paese, l’Iran, che, per quanto minaccioso, non è formalmente in guerra con gli Stati Uniti.
Gli americani hanno giustificato la loro azione affermando che Soleimani, non nuovo a operazioni simili, stava preparando un attentato terroristico.
È lecito uccidere un essere umano?
A prescindere dai dettagli del contesto e dall’intreccio dei complessi fattori geopolitici coinvolti nella questione medio-orientale, mi interessa attirare l’attenzione su alcuni presupposti taciuti di questo genere di discussioni.
Una volta portati alla luce, questi presupposti aiutano secondo me non soltanto a capire meglio le posizioni in campo, ma anche a stimolare un esame di coscienza (e di coerenza) in ciascuno di noi.
La questione taciuta, in questi casi, è la seguente: è lecito uccidere un essere umano? Le possibili risposte sono: 1) non è mai lecito; 2) sì, a certe condizioni.
1) Se uccidere, a prescindere dal contesto e dalle motivazioni, è sempre sbagliato, allora dobbiamo coerentemente condannare qualunque azione che, intenzionalmente, provochi la morte di uno o più esseri umani. Anche in guerra, naturalmente, e persino nel caso in cui si tratti di legittima difesa.
In quest’ottica, Trump, Osama Bin Laden, i partigiani di via Rasella, i militanti dell’Olp, Hitler – e i suoi stessi attentatori se fossero riusciti a ucciderlo nell’operazione Valchiria – sarebbero tutti indifferentemente assassini. Con le attenuanti del caso, certo. Ma pur sempre assassini.
2) Se invece uccidere, a certe condizioni, può essere lecito, nasce il quesito: chi stabilisce quando è legittimo farlo? Ed eccoci al dibattito attuale: sembra che a stabilire quando è lecito uccidere sia sempre chi decide di farlo.
Quali che siano le motivazioni politico-militari, è sempre possibile presentare le proprie uccisioni come “lecite” e “doverose”, mentre quelle altrui sempre come “criminali” e “ingiuste”. Gli assassini e i terroristi, siano essi esponenti di un governo o di un’organizzazione clandestina, sono sempre gli altri.
Tutti assassini o tutti innocenti?
Fatte queste precisazioni, è inutile continuare a ripetere, a testa bassa, che Trump ha fatto benissimo (destra) o che ha fatto malissimo (sinistra). Basta guardare la storia, e si scoprirà facilmente che i criteri che inducono a condannare o ad assolvere Trump diventano, applicati ad altri episodi, dei veri autogol.
In un caso trasformando in un assassino chiunque abbia ucciso o uccida, in qualunque circostanza e con qualunque motivazione ciò sia avvenuto; in un altro caso usando due pesi e due misure, ossia un criterio di legittimazione per tutte le uccisioni ideologicamente approvate, uno di condanna per tutte quelle disapprovate.
E dunque? O tutti assassini o tutti innocenti? In realtà un criterio in qualche modo oggettivo esiste, ed è quello della legittima difesa. Si tratta di un criterio accettato dal diritto penale di quasi tutti gli stati del mondo e dallo stesso diritto internazionale, così come da un personaggio insospettabile come Gandhi, fra gli altri.
Secondo questo principio, uccidere è lecito solo quando il rischio è così imminente e di un genere tale, che l’unico modo di evitarlo è provocare la morte dell’aggressore.
L’uccisione di uno o più esseri umani, in breve, è lecita solo quando non ci siano alternative per difendere se stessi o la collettività, e vi sia una ragionevole proporzione fra il danno evitato e quello inflitto all’aggressore per impedirgli di provocarlo. In tutti gli altri casi è doveroso cercare alternative politiche, diplomatiche, al limite anche tramite la deterrenza reciproca.
Ora, nessuno di noi ha in mano i dati a disposizione dei servizi segreti americani, iraniani o israeliani. Ma è davvero difficile pensare che l’uccisione di Soleimani fosse l’unico modo di sventare un futuro attentato. A meno di non considerarla un’esecuzione sommaria per attentati precedenti. Ma non funziona così.
L’uccisione di Qasem Soleimani
Senza un regolare processo nessuno può essere considerato certamente responsabile di un crimine, e, anche qualora lo fosse, non è scontato che la pena debba essere capitale.
Se dunque, in guerra o in circostanze drammatiche, l’unico criterio che autorizza l’uccisione di un essere umano è la legittima difesa nei termini in cui è stata descritta, allora l’operazione Soleimani è stata un crimine.
Come però, si badi, lo sono stati anche, mutatis mutandis, l’attentato di via Rasella a opera dei partigiani del GAP, la strage di Sabra e Chatila commessa dai cristiani libanesi o l’attentato di Monaco di Baviera a opera dei militanti dell’OLP.
Si è trattato di casi completamente diversi, certo, ma limitatamente al principio della legittima difesa la situazione è identica: in tutti casi che ho citato, infatti, c’erano alternative, dal momento che chi è stato ucciso non era sul punto di provocare un danno così imminente e diretto da indurre a ritenere che l’unico modo di evitarlo fosse l’uccisione.
Per concludere, e tanto per scombussolare le rigide contrapposizioni “destra-sinistra” che scattano automatiche in casi come questo:
1) uccidere è sempre sbagliato, ma allora ci sono (stati) in giro più assassini di quanto ciascuno di noi sarebbe disposto a concedere;
2) uccidere è lecito solo a certe condizioni, e allora ognuno ha le proprie motivazioni per farlo, totalmente opposte a quelle dell’avversario;
3) uccidere è lecito solo come legittima difesa, e allora sono davvero pochi i casi in cui questo avviene, e tanto Trump quanto i partigiani di via Rasella si trovano a mal partito. – Foto: Wikipedia